Un nucleo di opere esposte nelle stanze e nei corridoi del Rettorato furono acquisite nel 1953-54 all’ “Esposizione nazionale di pittura italiana contemporanea” promossa dall’Ateneo in collaborazione con la Soprintendenza. La mostra doveva richiamare l’attenzione sulla delicata situazione di Trieste e sottolinearne l’ “italianità”. Questo evento, nelle intenzioni dei curatori, doveva inoltre avvicinare il pubblico all’arte contemporanea e dotare l’Ateneo triestino di una propria collezione di dipinti con l’acquisto di parte delle tele esposte.
L’idea della mostra fu avanzata da Gian Luigi Coletti, fondatore della cattedra di Storia dell’arte presso l’Università triestina, e dal rettore Rodolfo Ambrosino che accolse la proposta di allestire la mostra nell’edificio centrale dell’Ateneo, il palazzo progettato da Umberto Nordio. Sostenitore dell’iniziativa fu anche il soprintendente Benedetto Civiletti. All’esposizione cui parteciparono su invito artisti di fama internazionale, si affiancarono una serie di conferenze di storici e critici con lo scopo di divulgare la conoscenza dell’arte moderna.
Aurelia Gruber Benco scriveva: “Non v’è, indubbiamente, settore che più di quello delle arti figurative risenta dello squilibrio di linguaggio tra artista e pubblico, perciò progettare e realizzare in clima di alto livello una esposizione nazionale di pittura contemporanea significa indubbiamente centrare un problema culturale di vivo interesse e di vasta portata".
(cfr. A. Gruber Benco, L’Esposizione Nazionale di Pittura Italiana contemporanea, in "Umana. Panorama di vita contemporanea", Trieste, a.II, n.12, dicembre 1953, p.5).
L’Esposizione nazionale di pittura italiana contemporanea va segnalata anche per l’interesse didattico su cui si incentrò una parte dell’organizzazione dell’evento. Le tre personalità che idearono la mostra non solo accolsero la sfida di presentare opere d’arte contemporanea, così ostica al grande pubblico, ma anche di farlo all’interno di un’istituzione in cui la maggior parte dei cittadini non sarebbe altrimenti mai entrata. Tale scelta fu certamente espressione di quanto l’Università volesse far parte del territorio, di quanto partecipasse alle vicende triestine, ma anche a quelle nazionali.
Il pubblico fu invitato ad entrare nel nuovo edificio universitario, a percorrere i suoi corridoi fino all’aula magna dove era stata allestita la mostra. Furono inoltre considerate le sue opinioni attraverso un sondaggio dove si invitava a scegliere tra i dipinti quello che più si avvicinava ai propri gusti. Il questionario predisposto dall’Istituto di statistica dell’Università di Trieste invitava i fruitori ad osservare con attenzione le opere e a stilare una personale classifica con l’aggiunta delle motivazioni.
Il rettore Ambrosino non mancò poi di contestualizzare l’evento all’interno dell’attività dell’Università. Venne infatti progettato (ma non realizzato) un corso di Critica d’arte che fu presentato, per la sua specificità, come il primo in Italia. L’insegnamento doveva infatti essere svolto da alcuni tra i maggiori critici invitati a discutere delle espressioni artistiche in un confronto diretto con delle opere scelte tra quelle in mostra per esemplificare concretamente questioni pittoriche e tecniche dell’arte contemporanea.
L’esposizione, spiegava il rettore, voleva fare dell’Università un centro animatore di alta cultura, non esclusivamente legato alla ricerca scientifica, e soprattutto aperto a tutta la popolazione (cfr. R. Ambrosino, Esposizione Nazionale e Corso di critica della pittura italiana contemporanea, in "Umana. Panorama di vita contemporanea", Trieste, a.II, n.10-11, ottobre-novembre 1953, pp.19-20).
Si riporta di seguito parte dell'articolo scritto sulla rivista «Umana. Panorama di vita contemporanea» dal soprintendente Benedetto Civiletti: «…La Soprintendenza ha fatto il suo dovere come meglio ha potuto, e ha cercato di farlo bene per due motivi. Il primo perché essa, in Trieste, raggruppa in un solo Istituto la cura e la tutela degli interessi archeologici e monumentali insieme a quelli artistici, differendo dalle consorelle le quali, in genere, sono specializzate in un solo campo. Il secondo perché è l’unica Amministrazione che -per varie ragioni e circostanze- ha conservato, nell’attuale stato di cose, il suo carattere regionale e quella unità di metodo scientifico e di azione, positivamente italiani, come avviene per l’Università.
Ma queste ragioni, da sole, sarebbero sufficienti a spiegare la mera collaborazione pratica, non il motivo della collaborazione. Questo motivo sta nell’interesse ormai nettamente delineato, negli istituti preposti alla conservazione dei documenti artistici e storici, non soltanto per le cose sulle quali la polvere dei secoli e dei decenni si è deposta con fatale regolarità, ma anche sulle forme d’arte che sono ancora tiepide di vita o palpitano di pieno e fecondo orgasmo. Non è il volere estendere «contra legem» poteri o facoltà delle quali il legislatore è stato finora, e forse ancora sarà, cauto e parsimonioso. Non è lontanamente il pretendere di contrarre o dirigere la creatività artistica a fini preordinati, ma solamente un modo di comprendere meglio, dalla diretta esperienza, dal personale contatto con gli artisti (creatori infaticabili) il calore di queste creazioni. Non intendere l’arte del proprio tempo significa non intendere l’Arte. E quando non si intende l’Arte nel suo complesso è inutile studiarne e classificarne le forme. Poiché non si farebbe nemmeno opera di scienza, se anche nella scienza non è la sola erudizione che conta, ma soprattutto l’animo, l’aspirazione segreta, quasi inconfessata, di arrivare alle radici del vero e dell’assoluto.
Conoscere, quindi, il mondo nel quale viviamo, così come l’agricoltore conosce la pianta che ha seminato, e la segue nei suoi germogli e nei suoi virgulti, nei suoi fiori, nel suo frutto e in ultimo nel seme che la perpetuerà in futuro.
La legge vuole che noi ci si occupi delle opere anteriori ad un cinquantennio, o tutt’al più a quelle di autori deceduti da almeno dieci anni. Rispettiamo la legge nella sua lettera. Ma essa non ci dice di non vivere il nostro tempo con i suoi campi di lotta ancora pieni di fremiti, o le sue battaglie ancora in atto. I motivi di queste battaglie sono ancora e sempre saranno quelli di ieri, di un secolo fa, di un millennio addietro. Non esiste, io credo, quella frattura che alcuni vorrebbero veder tra l’Arte di ieri e l’Arte di oggi: non esiste tale frattura come non esiste discontinuità storica, che sarebbe discontinuità di tempo. L’oggi è figlio di ieri come il domani sarà figlio dell’oggi. Non importa a noi che una prevalente corrente ad un tratto si dirami in mille diverticoli, non importa se per una improvvisa apparente anarchia essa si polverizzi in miriadi di tendenze; si tratta di un fenomeno naturale o artificiale che avrà i suoi risultati più o meno lontani. Importa solo sapere, conoscere, provare, che al fondamento di ogni nuova forma è solo l’inestinguibile bisogno di creare in sé, per sé, e per l’umanità intera, una fonte eterna di sensazioni, di sentimenti e di pensieri che valgano in ogni luogo e in ogni tempo.»
B. Civiletti, La Sopraintendenza e la Mostra, in «Umana. Panorama di vita contemporanea», Trieste, a. II, n. 12, dicembre 1953, p. 121.