Nicoletta Zanni (1910, p. 9) afferma come probabile che il soggetto dei Tafferugli (in realtà il titolo riportato sul talloncino è Il tafferuglio) di Maccari rimandi alla violenta soppressione - ordinata alla polizia civile dal Governo alleato - di alcune manifestazioni patriottiche che, circa un mese prima, a Trieste, aveva portato alla morte di sei giovani. Se stimolante è credere che, per l’esposizione del 1953, Maccari avesse scelto proprio un’opera raffigurante uno scontro di piazza, siamo certi che, ad essere presentato, non sia l’episodio accaduto a Trieste. Da un lato, il fatto che l’opera sia passata per la mostra dell’arte italiana organizzata a Stoccolma dalla Biennale veneziana nella primavera del 1953 fornisce una solida prova di una datazione sicuramente anteriore agli episodi di violenza verificatisi a Trieste. Dall’altro, l’opera è riprodotta nel numero del 6 febbraio del 1952 de “Il Mondo” di Mario Pannunzio (Maccari, assieme ad Amerigo Bartoli, è stato autore delle vignette che hanno accompagnato la rivista a partire dall’anno della fondazione) e accompagnata dalla didascalia: “Studenti fascisti dell’Università di Roma hanno aggredito l’on. Calosso durante le sue lezioni”. Inoltre, sulla scorta di un gusto che, dagli anni del “Selvaggio”, Maccari aveva traguardato alla prima età repubblicana, accanto alla didascalia compare il motto “Bastonatelo! Saremo bocciati, ma riavremo l’Impero”. Vero è che la questione di Trieste era bene impressa non solo nella mente degli autori delle pagine politiche de “Il Mondo”, ma anche in quella di Maccari che, il 26 ottobre del 1954, sulla medesima rivista avrebbe pubblicato un disegno raffigurante un’altra rissa, stavolta verificatasi alla Camera proprio nell’ambito di una discussione sul destino della città giuliana. La comparsa - a stampa - de I tafferugli su “Il Mondo” e, contestualmente, la possibilità di individuare l’opera originale nella china conservata presso il Rettorato, costituisce un’eccezione per un artista che, appunto, dagli anni de “Il Selvaggio” fino al secondo dopoguerra non si è mai curato di organizzare la conservazione degli originali.
Per uno sguardo complessivo sull’opera di Maccari, che Federico Zeri ha definito “uno dei più straordinari grafici del nostro secolo” (definizione del 1985 riportata in Mino Maccari 1988), restano riferimenti ineludibili: per le incisioni, il Catalogo ragionato a cura di Francesco Meloni (1979); per i dipinti, i volumi appartenenti alla serie di Maccari a dispense (dal 1984); manca, tuttora, un’opera sistematica sui Disegni. Emerge, nitida, la figura di un artista tenacemente conservatore, che nella seconda metà del secolo resta orgogliosamente estraneo ai nuovi formalismi astratti o a tentazioni espressionistiche.
Scarsi, dopo le sale concesse alla Biennale del 1938 ed alla Quadriennale del 1939, i riconoscimenti concessi a Maccari dalla critica e dal sistema delle arti in Italia. È Ragghianti (1955), a riportare all’attenzione dell’Italia repubblicana il particolare profilo dell’artista e, più in generale, il significato della cultura di fronda e delle battaglie di Strapaese, favorendo il superamento del cliché arte del Ventennio-arte fascista.