La storia dell’opera in esame, assente nelle monografie dedicate a Ziveri, resta ancora da scrivere. Storia che andrebbe a completare l’intera questione del rapporto tra l’artista e il Friuli Venezia Giulia: di origine friulane - majanesi, precisamente - era la moglie, Nelda Riva. A Majano, Ziveri trascorse molte delle sue estati e non poche, né trascurabili sono le sue opere che hanno per soggetto il paesaggio friulano. Proprio a Majano, a partire dagli anni Ottanta, sono state organizzate tre mostre dedicate all’artista.
Ziveri è un artista complesso, per il quale risulta arduo procedere a rigide periodizzazioni su base stilistica. Non a caso, Maurizio Fagiolo dell’Arco (1988) ricorre al termine anagrafico di “Maturità” per la fase successiva al 1948, cui appartiene la tela conservata presso il Rettorato triestino. Fase nella quale, almeno fino agli anni Sessanta, quando la sua pittura perde in tensione, Ziveri alterna la materia ricca, i colori violenti, le tavolozze torbide, i temi da illustrazione popolare dei suoi postriboli o dei bui anfratti di borgata romana a visioni incantate, popolate da figure imbambolate, sospese, che sembrano rimandare ad alcune visioni di Edward Hopper. Non mancano, inoltre, opere nelle quali evidenti sono le citazioni dalla storia della pittura italiana ed europea: decisivi, in questo senso, i viaggi dell’artista che, alla fine degli anni Trenta, ebbe modo di studiare i quadri dei più importanti artisti conservati presso i principali musei centro e nord europei, tra Tiziano a Rembrandt, Courbet e Rubens, Goya e Teniers. Molte maniere, insomma, per un artista che non si è mai piegato ai gusti dominanti e che rimane realista nella misura in cui è stato capace di “interrogarsi sul non-senso del reale” (Argan), di sacrificare il proprio punto di vista al costo di farlo naufragare nell’esistente; di costruire, come suggerisce Lucchese (1952) una “comunione umana sensuale e affettuosa” con il vero.
Nel Paesaggio presentato a Trieste nel 1953 è evidente come i tratti più popolari, sanguigni che avevano accompagnato l’artista negli anni Trenta e Quaranta siano stati puliti sulla scorta di un colorismo dal respiro internazionale, di una pittura di paesaggio caratterizzante le avanguardie europee tra Otto e Novecento. Lezione che, in tutta probabilità, Ziveri aveva appreso nelle sale della prima Biennale veneziana del secondo dopoguerra dove aveva potuto vedere i quadri dei fauve, degli impressionisti e dei post-impressionisti. Firma dell’artista, l’innesto di piccole e, come suggerisce Fagiolo dell’Arco nella monografia menzionata in apertura, “saporose” figure umane che rivelano suggestioni dalla pittura fiamminga.