Per ricostruire il contesto pittorico, ma anche culturale nel quale si colloca L’arco di Giano conservato presso il Rettorato dell’Ateneo triestino, occorre mettere a fuoco l’opera di Francesco Trombadori nel secondo dopoguerra. Operazione possibile avendo a mente almeno i due cataloghi delle esposizioni romane I paesaggi del silenzio 1945-1961 (Roma 1999) e Paesaggi di Roma (Roma 1979). In quest’ultimo è riprodotto un altro Arco di Giano, di dimensioni analoghe, individuato in collezione privata romana, opera che si può riconoscere nella tela transitata per la Biennale di Venezia del 1954, a pochi mesi dalla mostra triestina del dicembre 1953. Indicazione importante, stante l’abitudine dell’artista di firmare, ma non datare le proprie opere.
La pittura di Trombadori compresa tra gli estremi della fine del secondo conflitto mondiale e la morte, avvenuta nel 1961, presenta un carattere di sensibile omogeneità: formati piccoli e medi, l’insistenza su paesaggi e vedute, quasi tutti di Roma; la scomparsa pressoché totale della figura umana e della natura morta dai campi di interesse dell’artista. Nei testi del catalogo Paesaggi di Roma firmati da Giuliano Briganti, Muzio Mazzocchi Alemanni e Roberto Passi, le visioni di Trombadori sono ricondotte all’etichetta di Nuova Oggettività in Italia: di certo, e teniamo per buona la suggestione offerta da Duccio Trombadori (I paesaggi del silenzio, op. cit.), che ragiona sulla produzione coeva dell’artista, anche la tela conservata presso il Rettorato triestino è quel che si può definire una “perla ritardataria”. Tale produzione ha subito il torto di essere messa in parentesi in una Roma che, tra i Quaranta e i Cinquanta, è stata impegnata nelle diatribe tra figurativi ed astrattisti, tra formalisti e contenutisti, tra pittori tenacemente aggrappati ai richiami della provincia ed altri che cominciavano a curiosare in quel che succedeva nelle gallerie d’Oltreoceano.
Una pittura, quella di Trombadori, che si è tenuta lontana dagli scontri ideologici, dall’attualità storica; che ha le proprie fondamenta nel ritorno al mestiere degli anni Dieci e Venti, una significativa matrice letteraria, specificamente rondista. Un pittore per pittori, insomma, Trombadori, le cui opere sono ricche di riferimenti stilistici, di cultura visiva fatta d’arte moderna e contemporanea anche francese, tra Corot e Cézanne.
Visioni urbane costruite con pazienza, molto spesso riportate su tela da fotografie, sulle quali Trombadori ha operato quadrettature, linee, reticoli, ha misurato spazi, distanze per il riporto da foto a quadro. Nell’Arco di Giano conservato presso il Rettorato triestino appare ancora una volta una Roma incantata che, con le parole con le quali ha messo a fuoco l’ultima produzione dell’artista (nel numero 169 di “Paragone”, gennaio 1964), Roberto Longhi avrebbe definito “desertica, d’alto meriggio”. Reminiscenze dechirichiane, metafisiche, innanzi tutto, specie nell’edificio che – come una quinta teatrale – chiude la composizione, a sinistra; edifici dalle facciate cieche, sulla destra, che trasmettono tutto il peso di una incomunicabilità, di un silenzio fatto pietra. Spazi puliti, organizzati con grande compostezza fino a trasmettere un’idea di freddezza; una freddezza che è pulizia formale, che trasporta gli edifici fuori dal tempo e dalla storia. L’Arco di Giano, ma non solo: alle sue spalle, in parte nascosta, è riconoscibile, per esempio, la Chiesa di San Giorgio al Velabro, col suo portico ed il campanile romanico.