Sono due i più noti ritratti di Umberto Saba realizzati da Carlo Levi: la tela conservata presso la Galleria Nazionale d’Arte moderna di Roma portata a termine attorno al 1950 e quella, di dimensioni leggermente maggiori, presentata a Trieste alla mostra del 1953. L’attenzione di Levi nei confronti di Saba va letta secondo due chiavi interpretative: da un lato c’è l’amicizia personale tra due artisti – sarebbe forse il caso di dire che l’amicizia fu a tre, contando anche Linuccia, la figlia di Umberto, cui Carlo è stato sentimentalmente legato – incontratisi per la prima volta alla metà degli anni Venti, quando Saba aveva già dato alle stampe la prima edizione del Canzoniere, e di nuovo vicini a Firenze, nel 1943, quando entrambi trovarono riparo dalla persecuzione fascista presso Anna Maria Ichino. Dall’altro, l’incontro tra i due va letto nella più ampia prospettiva della ricerca di contatti nazionali, di un aggiornamento culturale dal respiro europeo di molta della migliore intellettualità giuliana insoddisfatta dagli orizzonti prospettati, a Trieste, dalla rotta politica e culturale dei liberalnazionali. Una vocazione è confermata dalla formazione fiorentina di molti giuliani a partire dai primi del Novecento e dalla stagione de “La Voce”.
Nel ritratto conservato presso il rettorato triestino, “uno dei più notevoli esempi di introspezione psicologica che Levi ci abbia dato” (Gioseffi 1953), la figura di Saba emerge su un paesaggio brullo, secco, spogliato di presenze umane, sotto un cielo livido. Fatta eccezione per le spoglie arcate di un viadotto, o un acquedotto riconoscibile al di sopra della spalla destra della figura del poeta, e di una costruzione visibile alla sinistra della sua testa, sono azzerati anche gli elementi architettonici. Un paesaggio che si è indotti a credere carsico; un paesaggio, tuttavia, disumanato, seccato, i cui pochi edifici sono puliti da un filtro antistorico, tutto mentale. Lievemente china, dolente, la figura del poeta pare evitare di sostenere lo sguardo dello spettatore; sembra, piuttosto, suggerire rispondenze con un paesaggio diretta filiazione di uno stato d’animo di profonda prostrazione. Le stesse pieghe del camiciotto, nervose, segnate con vigore, espressionisticamente, così come quelle che solcano il collo gonfio paiono, assieme alla presa incerta, fiaccata, impressa sul bastone dalla mano sinistra di Saba, concretarne i pensieri angosciosi, tortuosi, gli affanni esistenziali. Non estranea alla concezione del dipinto deve essere stata la preoccupazione con la quale Levi, in quei mesi, si teneva a giorno circa le condizioni di salute del poeta, affetto da una depressione venuta aggravandosi tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Cinquanta.