Cantiere figurava tra le opere esposte alla mostra Esposizione nazionale di pittura italiana contemporanea allestita nell’Aula Magna dell’ateneo alla fine del 1953 e risulterà vincitrice del primo premio-acquisto di 500.000 lire previsto dal bando della mostra. Nelle prime due votazioni la giuria, dopo aver individuato una terna di candidati composta da Afro, lo stesso Santomaso ed Emilio Vedova, non era riuscita a nominare i vincitori per la mancanza di una maggioranza qualificata. Si dovrà così applicare la clausola del regolamento che prevedeva il sorteggio tra la terna più votata, escludendo così Vedova dai premiati e assegnando a Santomaso il primo premio-acquisto: una scelta che solleverà anche polemiche, vista l’assoluta preponderanza delle opere astratte tra i premiati. La motivazione formulata dalla giuria a proposito della tela del pittore veneziano poneva l’accento sull’origine picassiana della sua ricerca pittorica: “Santomaso si è infatti proposto di sviluppare la scomposizione cubista fino a permettere una più lucida e costruttiva determinazione dell’oggetto e dello spazio; una più assertiva definizione dei valori plastici e coloristici; una più stretta e impegnativa relazione tra soggetto e oggetto. In questa ricerca, che partecipa con un suo personalissimo accento dei più vivi movimenti dell’arte moderna europea, Cantiere rappresenta indubbiamente un risultato assai importante, soprattutto perché concilia un’aperta emozione paesistica con una rigorosa architettura formale”.
Veniva così perfettamente inquadrato il carattere della ricerca del veneziano, i cui confini verranno ancor meglio precisati due anni dopo da Giuseppe Marchiori: “Nell’atmosfera limpida dei cantieri, il contrasto con le forti strutture degli scafi e col disegno netto dei tralicci metallici è accentuato sul piano della logica formale, con risultati che fanno del processo astrattivo un modo d’intendere più profondamente la realtà poetica dell’immagine: Gli elementi grafici (scale, fili, corde, gru, antenne) si accordano con la luce del fondo e coi motivi dominanti della partitura coloristica (barche, caldaie, macchine, cilindri, camini). Sono composizioni di oggetti che vanno sempre più trasformandosi in simboli e segni. La luce del cantiere, albale o mattutina, non è poi tanto diversa da quella, primaverile, che accoglie i riflessi verdi dell’erba, e che penetra dalla campagna nelle rimesse dove stanno i carri, gli aratri, le segatrici. Il pittore è dentro tutte le cose vedute, che la memoria ripete e trasforma sullo schermo della fantasia. È una scelta molto più valida di una rappresentazione obbiettiva. E in queste liriche della campagna, in cui gli oggetti si compongono nella misura esatta di un ritmo e di una struttura, c’è l’impulso vitale, c’è la partecipazione dell’essere, che è qualche cosa di più di un omaggio araldico alla fatica e al lavoro” (G. Marchiori, Santomaso. Pitture e disegni 1952-1954, Venezia [1954], p. 11).
Una sorta di visionaria etica del lavoro quindi, che in termini pittorici si componeva di una sostanziale ibridazione dei motivi di estrazione neocubista assimilati alla fine degli anni quaranta con elementi di origine surrealista: “in Piccolo cantiere, del ‘52, e in altri lavori coevi [tra i quali si può sicuramente inserire anche il Cantiere dell’ateneo triestino], Santomaso riesce ad incrociare la cultura surrealista e in particolare Mirò, maturando una volta per tutte il taglio di un linguaggio personalissimo: da questo momento in poi è ormai chiaro in quale senso Santomaso afferma di voler «essere nelle cose», nel tessuto della loro energia, e secondo quali parametri egli intenda congiungere la realtà esteriore del mondo con la memoria che se ne ricava: una memoria che abita nelle cose stesse o, meglio, nella visione che il pittore ce ne restituisce” (Cortenova 1990, pp. 20-21).