Artista complesso e dal percorso artistico elaborato, Dino Predonzani partì da una poetica legata al Novecento con richiami alla grande tradizione pittorica del passato. Negli anni Quaranta trasferì nelle sue opere il dramma della prigionia vissuto in prima persona al tempo della guerra, successivamente, negli anni Cinquanta, virò al Surrealismo per giungere infine ad espressioni artistiche vicine all’Informale. Il dipinto appartiene alla fase più conosciuta del maestro, quella legata al mondo surrealista. Come la gran parte degli artisti d’avanguardia di Trieste, ebbe la capacità di assorbire i principi del “tonalismo” senza avvicinarsi alle tematiche surrealiste affrontate ad esempio da Salvador Dalì. Dal punto di vista iconografico il suo è un mondo di vegetanti osteologie compiute sotto “uno svaporare di nubi schiumanti e agglomerate, tra un cielo di smalto e un piano di fuga che attira lo sguardo all’infinito” (Gioseffi, 1953, p. 24). Raffinato disegnatore e colorista venne invitato dal prof. Ambrosino a partecipare all’Esposizione nazionale di pittura italiana contemporanea.
Benché il regolamento prevedesse che l’opera dovesse giungere presso l’Università degli Studi di Trieste il giorno 10 ottobre, come documentato dal fitto carteggio conservato presso l’Archivio Storico dell’Università, il pittore chiese di posticipare per due volte la consegna dell’opera. Del 9 ottobre 1953 è una lettera inviata all’attenzione dell’Ufficio Iniziative Culturali dell’Università degli Studi di Trieste nella quale il pittore chiede, essendo egli un artista triestino e residente in città, di rinviare la consegna a fine ottobre in quanto il dipinto risultava mancante della cornice. Da una lettera datata 17 ottobre apprendiamo che la richiesta venne accolta.
Dallo scritto si evincono anche altre notizie importanti: le misure della tela (145x110) nonché la promessa di accludere alla missiva anche una riproduzione fotografica dell’opera. In seguito ai “fatti del ‘53” Predonzani inviò un biglietto di scuse all’Ufficio Iniziative Culturali per il protrarsi della consegna della tela.
Durante l’Esposizione molte furono le recensioni dedicate all’opera. In questa sede ricordiamo le parole di Aurelia Gruber Benco: “irto nella sua tematica longitudinale di cuspidi fredde, nel freddo, diviso e luminoso colore, sta la “Cattedrale distrutta” di Dino Predonzani che in un surrealismo esasperato – dove il disegno tende ad essenzializzarsi in punto e linea, e ogni corpo in puro, levigato osso – rivive un clima e quindi una tradizione profondamente nostri. Clima di vento turbinante fra le roccie [sic] porose che si fa clima di cultura di un Nathan, in uno Slataper, in un Benco. È il clima di una nostra aristocrazia spirituale di gelose esigenze e di massimo impegno che Predonzani è chiamato a trasferire nell’oggi, sempreché il punto e la linea non lo facciano prigioniero della superficie assolutamente bianca che, per certe desolate strade, è ancora pittura” (A. Gruber Benco, 1953, p. 10). Il gusto del pubblico, documentato dall’Istituto di Statistica dell’Università e poi pubblicato sul Bollettino della Doxa sconvolse totalmente il giudizio della critica segnalando l’opera di Predonzani come la seconda opera più gradevole dopo Il volto di Leonor Fini.